Lettera a me stessa

31 agosto 2012

“Not all those who wander are lost” (“Non tutti coloro che vagano sono perduti”). J. R.R. Tolkien, La compagnia dell’anello
“Solo agli erranti – recita un proverbio inglese – giunge sempre nuovo lo shock della bellezza. Che poi errare nella nostra lingua significhi sia vagabondare che sbagliare non è un caso.” Duccio Canestrini, Andare a quel Paese

La città dove vivrò si chiama Quito. “Quito” in spagnolo è anche la prima persona singolare del verbo “quitar” che tra i tanti significati può essere tradotto con “togliere”. Ho la netta sensazione, da un po’ di tempo, che qualcosa mi sia stato tolto. In partenza per volontariato, lascio il mio Paese, lascio lavori inconsistenti o al contrario opprimenti, lascio l’Abruzzo, la terra che mi plasma nel midollo e nella mente e mi richiama costantemente a sé come una sirena. Lascio il pessimismo, la crisi, la delusione, un’estate estenuante e lunga in maniera crudele.


Ho sempre detestato gli orgogliosi commenti dei giovani emigrati che non rimpiangono l’Italia. Tutta retorica – mi dicevo. Credete di essere più furbi di noi che restiamo? – ho sempre idealmente chiesto loro. Non sono mai partita per fuggire da qualcosa. Fuga: odio la parola. Cervelli in fuga, Italiani in fuga… si fugge dalla guerra e dalla carestia, di solito. L’Italia è così messa male? Per noi il viaggio dovrebbe essere una fortuna, un privilegio non un naufragio della speranza: poter vedere il mondo e non essere tanto disgraziati da doversi riscattare anche a costo di attraversare l’oceano. Dire che fuggiamo credo sia anche un’offesa per chi davvero è costretto a fuggire per salvarsi la vita. Noi abbiamo tutto, apparentemente: quindi cos’è che tutti cercano nella fuga?


Foto di Sandra I., Marsaxlokk 2012
Sono sempre stata convinta che parte della buona riuscita di un viaggio dipenda dai motivi per cui esso è intrapreso. Sono convinta che partire per cavarsi da una situazione a cui non sappiamo trovare una soluzione sia una mossa pessima: meglio restare a casa e cercare di sbrogliare la matassa tanto i guai corrono più veloci di te. Per questo quando parto non penso mai a cosa desidero lasciarmi alle spalle ma a cosa desidero trovare di bello lungo il cammino e a destinazione. Ed era così anche questa volta fin quando lo sconforto di vivere in una terra ingiusta e in declino non ha preso il sopravvento anche per me. A volte la matassa è semplicemente troppo ingarbugliata perché la durata di una vita basti a metterla in ordine con la sola forza della ragione.

Alla felicità e all’euforia per la notizia di essere stata selezionata per un Servizio Volontario Europeo dall’AFSAI si è presto sostituito l’odio per un panorama immobile e stantio che deprime chiunque provi a sopravviverci. E sopravvivere non è vivere. Comincio a capire la sofferenza di chi è costretto a lasciare il proprio Paese pur amandolo sconsideratamente: non stiamo certo parlando di un Paese in guerra civile, ma forse in civile apatia. Valentina D.L. ci ha insegnato che “crisi” non vuol dire sconfitta, che in cinese questa parola è costituita da due ideogrammi: pericolo e opportunità. Così parto per lasciare un’Italietta sempre più ripiegata su se stessa nella speranza di ritrovare, magari, quell’Italia migliore che ho già incontrato all’estero. Sì perché quest’impressione è stata forte fin dall’inizio: gli Italiani all’estero sono migliori degli Italiani in Italia, non perché più furbi o intelligenti, ma perché il viaggio ha restituito loro una serenità impossibile in patria.

Lascio, non ne posso più di lottare contro i mulini a vento, o comunque non sono ancora abbastanza forte per vincere. Don Chisciotte morì perché scoprì che la sua missione era solo un’illusione per cui tutti si prendevano gioco di lui; io lascio morire solo la parte di me mortificata dall’aver creduto con i miei Sancho Panza di poter fare una differenza. Come Troisi: ricomincio da tre. Tre non è solo un numero magico, simbolico, fortunato: è il numero dello SVE, la terza esperienza che i programmi dell’Unione Europea mi permettono di svolgere all’estero. Sono appena all’inizio del mio visionario viaggio, prendo quello che c’è di buono e me lo porto via. Lascio l’Italia e raggiungo un sogno che dura da anni: Quito, latitudine 0, sarà la mia Destinazione Zero. Cosa farò? Non lo so. Mi ambienterò facilmente? Non lo so. Tornerò? Forse no. La mia associazione di accoglienza sarà soddisfatta del mio lavoro? Posso solo impegnarmi il più possibile e tentare di ritrovare un sorriso per poterlo restituire laggiù. O forse è laggiù che ritroverò ciò che ho perso. E come me, sono sicura, molti “cavalieri erranti” ritroveranno i loro compagni e i loro tesori.

Paola A.

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