"Il coraggio è il superamento della paura"

3 ottobre 2012

Forse perché gli abbracci si fanno più intensi e le telefonate più schiette.
Forse perché gli occhi di mia zia si fanno lucidi di timore e fierezza nell’augurarmi fortuna nel prossimo viaggio.
Perché i sabato sera passati con mia mamma sul divano mi sembra valgano più di mille houseparties con gente di tutta Europa.
Forse perché il mio papà tanto allergico alle tenerezze improvvisamente mi abbraccia, mi stampa due baci sulle guance e mi dice “fatti valere” guardandomi dritto negli occhi.
Perché i pochi giorni di vita di mio nipote mi fanno sentire d’un tratto più adulta, più matura, come se anch’io in quanto zia avessi una responsabilità morale verso di lui e la sua crescita.
La Virgen del Panecillo vista attraverso la vetrata della Basilica
Perché parlare con un amico che vive lontano mi emoziona ancora di più sapendo che non lo potrò vedere almeno per altri sei mesi.
Perché i sospiri non sono più colmi di tristezza ma si speranza.

“Forse è così, io vivo fuori tempo. È vero ciò che sento sotto pelle, è come una costante sensazione di mancata appartenenza…” dice una canzone di tanti anni fa. Sarà per questi motivi che mi piacciono le continue partenze e i continui ritorni, perché amplificano le sensazioni che altrimenti si limitano ad essere ordinaria amministrazione. Eppure c’è bisogno di separarsi da qualcuno per sentirne così intenso il legame? Ed eccomi qua, una giovane donna di 27 anni senza arte né parte, senza un lavoro né un’idea di cosa vorrebbe fare per guadagnarsi da vivere, single perché non riesce a rinunciare ad uno stile di vita incoerente e discontinuo o forse alla sua immaturità, in crisi di pianto davanti a una valigia dove sa che non basterà mettere un bigliettino con su scritto “Andrà tutto bene” perché questo si avveri. Ma è così che andrà, andrà bene, perché ancora una volta dimostro a me stessa che la mia forza di volontà ha realizzato un mio sogno. Allora tra le lacrime il mio stesso pianto mi fa simpatia, quasi tenerezza. Perché so da cosa nasce: dalla paura. Sì, sto per partire e sono terrorizzata, quasi paralizzata. È un tipo di terrore che mi dice: “Tu vuoi fare questo con tutto te stesso ma non sei capace”. E questa voce dovrebbe forse fermarmi? Riesce sempre a ridurmi in lacrime sì, ma è questa la mia risorsa. Questa è la risorsa perché mi fa capire cosa è importante per me perché realizzare ciò che ho paura che non sia alla mia portata mi migliora e mi soddisfa. Ho capito che il terrore è una condizione esistenziale necessaria e imprescindibile perché io riesca nella vita, ma non lo faccio coscientemente, infatti spesso mi ritrovo a chiedermi: “Ma chi me l’ha fatto fare?” e mi arrabbio con me stessa perché sembra che mi piaccia complicarmi la vita. Soffro di vertigini? Faccio un trekking sulle scogliere. Soffro di mal di testa e pressione clamorosamente bassa? Vado a vivere a 3000 metri d’altitudine sull’Equatore. E quindi penso: cosa sarei, cosa farei senza le mie paure?

Roma, Parigi, Bogotà, Quito. Quito ci accoglie notturna nella sua veste da sera pericoloso ed affascinante. Fuori dal finestrino finalmente, dopo 26 ore di viaggio, scorgiamo la nostra nuova casa. Mille lucine si avvicinano e le colline che disegnano la loro sagoma nera si spostano assecondando il movimento dell’aereo che si avvicina ad uno degli scali più assurdi del mondo. Si scopre la valle infossata tra i vulcani riempita da questa caotica e multiforme città. Ci siamo, si comincia.


Paola A.

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