Primo viaggio verso los Yungas


Dopo una interessante quanto stressante mattinata di spesa al mercato, stracarichi di provviste mal riposte in sacchetti troppo piccoli, partiamo con un minibus abbastanza malridotto e altrettanto stracarico in direzione Coroico.
Sono seduta a fianco di una signorona dalle trecce lunghe e probabilmente non troppo pulite, parecchi chili di troppo e figlio adolescente al seguito, che vomiterá in un sacchetto di plastica per un buon tratto. Dal finestrino entrano i soliti fumi neri pestilenziali che mi impediscono di godermi il paesaggio fino a che non arriviamo a La Cumbre, dove la strada si amplia, il traffico rallenta, inizia a piovere e la natura cambia completamente. Rocce e montagne, vento gelido e poche forme di vita. Mi aspettano tre ore di varietá climatica e paesaggistica, posti di blocco, curve pericolose e sorpassi azzardati. Poi, la strada si fa di nuovo stretta, la vegetazione fitta, lo strapiombo inguardabile e il caldo umido.
Intravedo Coroico, un pugno di quadratini colorati in mezzo a un’immensitá di montagne ricoperte di vegetazione tropicale. Ricordo il giorno in cui avevo cercato su internet foto di Coroico dopo aver saputo che sarei partita, e avevo trovato qualcosa di molto simile all’ immagine che ora vedo attraverso il vetro del nostro autobus traballante.
La strada non é piú asfaltata, sobbalziamo ad ogni pietra e grosse nuvole di polvere gialla avvolgono il nostro minibus.

La gente si sveglia poco a poco, apre i finestrini e inizia a togliersi strati di vestiti.
Sono arrivata in un’altra Bolivia.
Coroico non é come me l’aspettavo: turistica, coloniale, accogliente. Il centro é una piazza con poche bancarelle di soliti snack dai colori troppo  sgargianti, carretti di venditori di gelati acquosi, cani randagi, qualche cholita dalle lunghe trecce e l’aria di voler fare affari con noi guiris, personaggi tra il vagabondo e l’ubriaco sdraiati sulle panchine, pronti a vivere un’altra giornata di nulla. Prendiamo un taxi per Carmen Pampa e la mia valigia rosa con le preziose riserve di cibo italiano si accinge a compiere l’ultimo, polveroso viaggio della settimana.
Il taxi procede contromano (abitudine piuttosto diffusa) saltellando sopra le pietre, lasciando una scia di polvere e cumbia boliviana. La strada (14 km non percorribili in meno di 40 minuti) é stretta e dissestata, l’argine destro sembra precario ma tutto sommato non mi immagino precipitando in quello strapiombo verde.  Mi vedo allontanare sempre piú da una qualsiasi forma di “civilizzazione” ed entrare in una sorta di utero dell’America latina: strelizie, piante di banane e papaya, campi di coca, poche case di lamiera e mattoni, qualche villa probabilmente di qualche cocalero, soliti cani randagi, bambini soli e sporchi dallo sguardo spaurito. So che quelle immagini diventeranno presto familiari.
Ho voglia di lavarmi e di togliermi di dosso tutta quella polvere, di vedere quella che sará la mia ennesima casa e di sentire un qualche senso di appartenenza a quel posto. 

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