"Dove finiscono le strade... " - ultimo giorno


Carmen alla stazione della Nariz del Diablo
È mercoledì 12: dobbiamo lasciare la comunità, ma non ne abbiamo molta voglia, se non fosse che la scalata del Chimborazo ci aspetta. Gli zaini sono pronti, io ho il numero dell’agenzia di viaggio di Riobamba da dove partiremo per il vulcano. Come tutte le mattine ci svegliamo prestissimo ed io mi giro nel letto con un pensiero: “Ma se ne ho tanta voglia, chi mi impedisce di restare qui un giorno in più?”. Poco dopo l’amara sorpresa: Chiara ha la febbre, niente di grave, ma è meglio che stia a letto. Non che mi fossi mai augurata che una di noi stesse male, ma restare a Nizag con lei non mi dispiace affatto e la stessa decisione prende Marian, anche se vuol dire che alla fine al vulcano non ci andremo! Subito dopo Rosa Elena ha già preparato un rimedio con delle erbe e basta una telefonata a José perché arrivi fulmineo con delle medicine che vuole convincere Chiara a prendere. Un po’ iperprotettivo forse, così Marian ed io insistiamo perché aspetti un po’ per prendere qualcosa. “Bene José, abbiamo deciso di partire domani, quanto ti paghiamo la notte in più?”. “Beh, io e Joaquín ne abbiamo parlato e uno non decide di ammalarsi, succede e basta, quindi per oggi siete nostre ospiti.”. Proprio vero, no? Chi meno ha, più dà. Marian ed io lasciamo allora che Chiara riposi nel suo lettone e nel suo adorato piumone, al calduccio della nostra casetta di terra dalle pareti coloratissime. 

Girovagando, incontro di nuovo Juanita, una presenza deliziosa in tutta la settimana: Chiara l’aveva conosciuta vagabondando per la comunità e lei le aveva offerto del pane appena sfornato e l’aveva invitata il giorno seguente per fare i quimbolitos (un dolce tipico) assieme. Noi però il giorno dopo non andammo perché tornammo tardi dal trekking ma lei non se la prese: preparò lo stesso i quimbolitos e ne regalò uno ad ognuna dandocene uno anche per la nostra compagna di viaggio rimasta a casa, anche se poi alla fine il quimbolito in questione fu divorato da due fratellini che incontrammo sulla strada del ritorno. Juanita, incuriosita, mi chiede allora come mai siamo ancora a Nizag e la informo che la sua amica non sta bene. Dopo aver parlato del più e del meno, mi invita a partecipare con lei ad un corso di gastronomia vicino il palazzo comunale: e cosa vuoi di più dalla vita? Certo che andremo! Marian ed io così ci presentiamo dopo una mezz’oretta nel salone: il corso doveva cominciare alle 9, ma sono le 11 e le partecipanti non sono ancora arrivate tutte. Juanita non c’è, c’è Agustina con sua figlia però, una piccola peste con cui cominciamo a giocare finché una signora non arriva con un grande sacco di plastica chiuso: “Vuoi vedere?”, c’erano due porcellini d’India. Vivi. I porcellini d’India, chiamati cuy in Ecuador, sono il piatto tradizionale delle Ande, ebbene sì. Dunque la signora in questione comincia a prenderci un po’ in giro dicendo che loro li avrebbero uccisi e noi avremmo tolto la pelle per poi vedere come si cucinavano. Il tempo di finire i pop corn che ci sono stati offerti e Marian ed io siamo già fuori dalla sala!
La moglie di José lavora i campi: la vedete?
E' nella macchia di vegetazione al centro della foto

Si fa sera, José torna a visitarci per vedere come sta Chiara: sta meglio, domani si parte. Due chiacchiere e ci racconta che è stato a Pishtishi per l’arrivo del treno e che purtroppo deve lasciarci perché, alle 6 di sera, quando è ormai buio, deve andare a lavorare un pezzetto di terra che ha bisogno di essere irrigato. Abbiamo visto tantissime persone lavorare la terra, principale fonte economica, in questi giorni, molte su pendenze per noi impossibili, una di queste era la moglie di José che osservavamo dall’altra parte della vallata, lei col suo abito blu, una minuscola macchiolina di colore sull’immensa e ripida montagna, sembrava posata sulla vegetazione come Morpho, la farfalla azzurra dell’Amazzonia, e così sembrava reggersi in leggiadro equilibrio mentre tutti i suoi muscoli erano in tensione per riuscire a stare in piedi, per raccogliere il frutto del suo lavoro. A questa gente sembra non mancare niente, di cibo ne hanno e anche se umile a loro basta, ma hanno bisogno di soldi per i vestiti e per far studiare i figli: il pueblo infatti è pieno di donne, moltissimi uomini lavorano all’estero o in giro per l’Ecuador, come il marito di Rosa Elena che si trova ora in Oriente, così è chiamato il bacino amazzonico ecuadoriano. Allora la poesia di un mondo agricolo autosufficiente che si regge su se stesso fa a pugni con un capitalismo che ti costringe a seguire le sue regole per quanto tu possa vivere in una comunità lontana da tutto.
Sarebbe stato bello pensare che gli abitanti di Nizag non avevano bisogno di emigrare per lavorare, che tutti vivono qui felici ed uniti. Ma in fondo siamo in un paesino povero in un Paese dall’economia confusa: ma l’autosufficienza è possibile in altri contesti? È possibile sottrarsi sistematicamente alle regole del mercato o i casi di chi ci riesce rimarranno sporadiche esperienze di visionari? È solo un’illusione la possibilità di ristabilire la centralità dell’uomo e della natura, di rifiutare il denaro come sovrano, di abbandonare la decadenza delle città senza essere presi per fricchettoni? Le ultime parole di José prima di salutarci risuonano più e più volte identiche: “No se olviden de Nizag! No se olviden de Nizag!” (“Non vi dimenticate di Nizag!”).
“Dove finiscono le strade è proprio lì che nasce il giorno”: non ho mai capito questo verso di una popolare canzone finché non sono arrivata a Nizag. Nella comunità ci sono solo sentieri polverosi. Le strade finiscono, si dissolvono, così come il rumore delle macchine e la fretta dei pendolari. Il tempo scorre all’indietro, la gambe non hanno fretta. Le strade asfaltate finiscono ma inizia un giorno diverso e un'esperienza che, non preoccuparti José, non dimenticheremo facilmente.
Paola A.

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