Una donna lavora la shigra |
La visita alla scuola di Nizag si rivela un altro simpatico fuori programma: l’idea era che avremmo dato una breve lezione d’inglese ai bambini ed io, fresca di un entusiasmante laboratorio di educazione teatrale tenuto da una ragazza cilena in gambissima (Stephanie del collettivo Trajín Móvil), avevo già in mente le attività che avrei potuto svolgere con loro. Non vedevo l’ora! Come nella migliore tradizione ecuadoriana, però, quando il nostro “accompagnatore turistico comunitario” ci presenta al preside veniamo a sapere che oggi è giorno di festa: sono previsti danze e rappresentazioni per l’elezione del governo studentesco. Niente lezione quindi, ma assisteremo ad un altro pezzo di vita della scuola. Il programma però stenta ad iniziare e così ci intrufoliamo in alcune aule improvvisando canzoni in inglese, ma i ragazzini ci chiedono soprattutto di cantare in italiano, spiazzandoci un po’, perché “un professore di inglese già ce l’abbiamo, si chiama Germán.”. Dopo un po’ veniamo catturate dai libri di testo in kichwa e Marian ed io non riusciamo proprio a trattenerci dal ripetere un verso di quella preghiera che già da giorni ci frulla nella testa: “Non voglio andare via da qui”. Quello che ci colpisce soprattutto è il racconto della storia: è questo il libro che più mostra la lontananza geografica con il nostro mondo di provenienza e soprattutto la lettura che esso fa del passato e della realtà. Ma i bambini sono irrequieti e uno di loro ci convince a fare un giro fuori dalla scuola. Non siamo sicure che possano uscire ma i pochi insegnanti che vediamo sono intenti a ripassare i balli tradizionali e per il resto i bambini sono lasciati totalmente a loro stessi. Usciamo e nessuno ci ferma: ma dove ci porti?
Finiamo per una ripida discesa dove, come dice Marian, i bambini sembrano saltare o volare più che camminare e quando arriviamo in fondo e le nostre scarpe scivolano sul fango veniamo apostrofate dal capo della piccola gang con un sonoro e meritatissimo: “Como sono miedosas ustedes!”, “Come siete paurose!”. Purtroppo è vero e le cose non migliorano quando tutti iniziano a spargerci simpatici granchietti sulla felpa… c’è una differenza abissale tra questi bambini e quelli di Quito. Questi sono aperti, chiacchieroni, intraprendenti, senza paure, un tutt’uno con la natura, con gli animali, dei veri spiriti liberi; quelli invece a volte devono essere persino scossi per far sì che si muovano, sono più chiusi, diffidenti, viziati e anche loro, come noi, un po’ paurosi e quando si attivano è spesso per esprimere dell’energia repressa per mezzo della violenza. È così, penso, che si cresce in città, in mezzo a una quota troppo alta di cosiddetta civilizzazione.
Un punto un pochino impegnativo della via per la Nariz del Diablo |
Paola A.
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