"Dove finiscono le strade..." - parte III

Una donna lavora la shigra

La visita alla scuola di Nizag si rivela un altro simpatico fuori programma: l’idea era che avremmo dato una breve lezione d’inglese ai bambini ed io, fresca di un entusiasmante laboratorio di educazione teatrale tenuto da una ragazza cilena in gambissima (Stephanie del collettivo Trajín Móvil), avevo già in mente le attività che avrei potuto svolgere con loro. Non vedevo l’ora! Come nella migliore tradizione ecuadoriana, però, quando il nostro “accompagnatore turistico comunitario” ci presenta al preside veniamo a sapere che oggi è giorno di festa: sono previsti danze e rappresentazioni per l’elezione del governo studentesco. Niente lezione quindi, ma assisteremo ad un altro pezzo di vita della scuola. Il programma però stenta ad iniziare e così ci intrufoliamo in alcune aule improvvisando canzoni in inglese, ma i ragazzini ci chiedono soprattutto di cantare in italiano, spiazzandoci un po’, perché “un professore di inglese già ce l’abbiamo, si chiama Germán.”. Dopo un po’ veniamo catturate dai libri di testo in kichwa e Marian ed io non riusciamo proprio a trattenerci dal ripetere un verso di quella preghiera che già da giorni ci frulla nella testa: “Non voglio andare via da qui”. Quello che ci colpisce soprattutto è il racconto della storia: è questo il libro che più mostra la lontananza geografica con il nostro mondo di provenienza e soprattutto la lettura che esso fa del passato e della realtà. Ma i bambini sono irrequieti e uno di loro ci convince a fare un giro fuori dalla scuola. Non siamo sicure che possano uscire ma i pochi insegnanti che vediamo sono intenti a ripassare i balli tradizionali e per il resto i bambini sono lasciati totalmente a loro stessi. Usciamo e nessuno ci ferma: ma dove ci porti?

Finiamo per una ripida discesa dove, come dice Marian, i bambini sembrano saltare o volare più che camminare e quando arriviamo in fondo e le nostre scarpe scivolano sul fango veniamo apostrofate dal capo della piccola gang con un sonoro e meritatissimo: “Como sono miedosas ustedes!”, “Come siete paurose!”. Purtroppo è vero e le cose non migliorano quando tutti iniziano a spargerci simpatici granchietti sulla felpa… c’è una differenza abissale tra questi bambini e quelli di Quito. Questi sono aperti, chiacchieroni, intraprendenti, senza paure, un tutt’uno con la natura, con gli animali, dei veri spiriti liberi; quelli invece a volte devono essere persino scossi per far sì che si muovano, sono più chiusi, diffidenti, viziati e anche loro, come noi, un po’ paurosi e quando si attivano è spesso per esprimere dell’energia repressa per mezzo della violenza. È così, penso, che si cresce in città, in mezzo a una quota troppo alta di cosiddetta civilizzazione.

Un punto un pochino impegnativo della via per la Nariz del Diablo
Ecco che comincia a diventarmi chiaro il ruolo e il significato del turismo comunitario e i benefici che può portare sia a chi ospita che a chi è ospitato, ma è il giorno dopo che ho come la sensazione di cominciare ad avvicinarmi davvero ad una famiglia, a conoscere delle persone e non dei manichini danzanti. L’ultimo giorno infatti è dedicato ad un trekking piuttosto faticoso che ci porta dai 2500 metri di Nizag ai 1800 di Pishtishi (e ritorno ovviamente…) dove si trova la stazione del treno della famigerata Nariz del Diablo. Sapevamo che la strada era impegnativa e ci avevano avvertito di alcuni passaggi piuttosto pericolosi ma ancora mi stupisco del luogo dove ho posato gli scarponi, di come con tutta la paura che ho dell’altura sia riuscita, seppure con tanta fatica mentale, a portare a termine quella che per me è una piccola conquista. La prima parte della via è una ripidissima discesa e già questo mi fa immaginare il momento in cui torneremo stremate dalla risalita di 700 metri di dislivello e vedremo questa cima da conquistare come se fosse il K2. Ma non è il momento di pensarci: la via si fa subito più dolce nella pendenza e più colorata nella vegetazione, molto diversa da quella che abbiamo percorso il primo giorno. La nostra guida, José, ci illustra la storia della costruzione della ferrovia e la pianta da cui si ricava la shigra, la fibra vegetale usata per creare artigianato che tutte le donne di Nizag sanno lavorare. La strada si fa sempre più stretta, ripida e la presenza di una spessissima coltre di sabbia non aiuta affatto a far aderire le suole degli scarponi al terreno: scivolare è inevitabile. Ma la cosa che ci stupisce di più è la facilità e l’agilità con cui José percorre questa strada con delle scarpette di tela dalla suola liscia: tutti i membri del gruppo turismo compiono questo percorso con passo spedito e senza il minimo sforzo, apparentemente, tre volte a settimana, in corrispondenza delle corse turistiche del treno, per andare a vendere artigianato nella stazione e per esibirsi in uno spettacolo di danze andine. Un popolo abituato ad utilizzare il proprio corpo in maniera diametralmente opposto al tipico impiegato italico. Poco a poco la paura dell’altezza sale e comincio a diventare sempre più nervosa, ma so anche che più sono nervosa, più il corpo si irrigidisce e più è facile cadere. Cerco allora di distogliere la mente e di rivolgere solo rapide occhiate al paesaggio mozzafiato che non ho nessuna intenzione di perdermi a causa di una stupida paura e quando non ce la faccio scatto foto senza guardare e senza fermarmi. José si accorge della mia difficoltà e mi sorregge nei passaggi più difficili: “Usted no está acostumbrada a caminar?”, mi chiede. Certo che sono abituata a camminare, penso, ma di solito non lo faccio sull’orlo di un burrone! José è un’ottima guida, mi ricorda un amico che già una volta mi aiutò a camminare sul ciglio di una scogliera affacciata su un placido mare blu. La mente cerca di viaggiare, immagino di scrivere queste parole come per porre quello che sto vivendo già nel passato, come per immaginarmi di averlo già superato, perché pensare che manca ancora metà tragitto mi fa girare la testa. Ad ogni passo ripeto: “Yo puedo, yo puedo…”. Finalmente l’ultimo tratto strettissimo, dopo una caduta di José che lui prende con una risata che risuona nella valle ma noi con una seria preoccupazione, ed ecco che arriviamo alla stazione, ma non è tanto il treno quello che ci attira quanto il gruppo turismo già presente sul luogo, le donne con l’abito tradizionale e gli uomini con uno splendido vestito bianco neve protetti dal freddo da uno poncho bordeaux. Quando arriva il treno il gruppo mette in scena la sua esibizione, ma oltre alle danze, al ritmo incalzante e travolgente quello che mi attira sono proprio i turisti stranieri. Improvvisamente mi rendo conto di una cosa banale: io e le mie compagne di viaggio conosciamo i nomi di molti dei ragazzi che ballano. Joaquín, José, Carmen, Luís e Rafael, il marito di Agustina, proprietaria di un negozio vicino al centro di artigianato nella comunità e che ci regalerà orecchini e braccialetti prima della nostra partenza: cosa sanno i turisti che passano qui distrattamente delle loro vite? Daranno mai, come noi, una lezione di inglese a questi indigeni pieni di un umiltà e di una ricchezza che ci incantano? Mangeranno con loro una calda minestra riparati da una povera capanna appena accanto la stazione? O quella capanna non la noteranno mai e mai si chiederanno la storia di quella ragazza dai capelli corvini che li ha incantati volteggiando con la sua gonna rossa e lo scialle immacolato, lei che sorride sempre e nei passi di balli antichi nasconde la tristezza del proprio passato? Indosseranno mai, come noi la sera della nostra despedida, quei pesanti abiti per giocare ad essere parte della comunità?

Paola A.

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