Bambina ad acquarello

31 ottobre 2012

Il concetto di dolore è soggettivo e culturale. Soggettivo perché dipende da quanto una persona sia abituata a sopportarlo, da quanto abbia la tendenza a lamentarsi. Culturale perché dipende da quanto un popolo patisca problemi come fame, malattie, catastrofi atmosferiche e da come sia abituato ad affrontarli, dipende da quanto la sua cultura gli consenta di esternare le proprie emozioni e dal livello di assuefazione ed esposizione al dolore stesso.
Qualche settimana fa stavo benissimo cantando e giocando con i bambini come sempre, quando a un tratto il mio corpicino da europea superprotetta ha deciso di ribellarsi alla “fatica” di fare questi sforzi ad un’altitudine di 3120 metri, dove insegno inglese e italiano in una scuola. Un freddo inconsolabile, la testa che mi girava e lo stomaco che si torceva. Forse solo un po’ di soroche, il mal d’altura, niente di eccezionale. Decisi di sedermi e mangiare un po’ di sopa e di arroz, i piatti immancabili nel pranzo quotidiano ecuadoriano. Vicino a me c’era Veronica, una bambina che mi si è affezionata dal primo giorno.  
All’inizio mi spaventava l’idea di lavorare con i bambini: li ho sempre ritenuti dei giudici infallibili e questo mi preoccupava perché so di non essere un’ottima persona, ma chi lo è? Ogni volta che entro in classe e tutti si alzano per abbracciarmi penso che in fondo non posso essere tanto male se piaccio a loro.

Veronica nella scuola Acuarela di Colinas del Norte



L’ennesimo soroche: mi scocciava così tanto il fatto di stare di nuovo male che mi sedetti in un angolo a mangiare in silenzio, sotto la felpa e il cappotto, guardando Veronica che ritagliava all’altro lato del tavolo un bebè che le avevo disegnato su un foglio bianco. Ma non mi andava neanche la sopa calda e la lasciai lì. Dopo qualche minuto in cui le compagne non si erano accorte di niente, Veronica mi si avvicinò e mi mise le mani agli angoli della bocca, tirando in su per farmi fare un sorriso. Le dissi: “Non sto molto bene”, lei mi rispose: “Sai io prendo le pastiglie, mio papà me le compra”.
Veronica è epilettica, il primo giorno che sono stata in classe sua al momento di chiederle il suo nome gli altri bambini mi hanno detto che non parlava. In effetti emetteva solo dei suoni, come dei lamenti, mi faceva una pena tremenda. Si aggirava per la classe con uno sguardo perso nel vuoto, camminava lentamente come una vecchietta che non abbia più forza nei muscoli, trascinando i piedi con dei movimenti meccanici. Ogni tanto mi guardava con gli occhioni sbarrati e un grande sorriso ebete, affondava il viso nella mia felpa blu e mi seguiva ovunque. Dopo qualche giorno ho capito che non è affatto vero che non parla, anzi: quando l’ho sentita distintamente parlare per la prima volta è stato come vedere un malato in carrozzella che si alza. Mi avrebbero spiegato poi che nei periodi in cui fa i trattamenti ha dei grandi momenti di vuoto, ma quando sta meglio è una delle bambine più intelligenti e sensibili.
Sono preoccupata: quando riesce ad esprimersi rivela una grande intelligenza ma mi sto rendendo conto che Veronica non riceve l’attenzione di cui avrebbe bisogno perché emergano le sue potenzialità. La profe svolge un lavoro eccezionale, ma lei, così come altri bambini, avrebbe bisogno di una persona che la segua costantemente neutralizzando o gestendo i suoi momenti di vuoto. Il sistema educativo ecuadoriano include i bambini cosiddetti “speciali” nelle scuole “normali” e questo mi sembra bellissimo, ma funziona davvero? Quali dovrebbero frequentare scuole per soli “bambini speciali” e perché? Non è naturale che bambini diversi frequentino una scuola che si basa su un metodo diverso? E quando dico “bambini diversi” non mi riferisco affatto a delle disabilità, ma penso ad esempio a quelle classi dove ci sono bambini irrequieti ed altri calmissimi, alcuni che apprendono meglio ascoltando, altri osservando, alcuni che riescono ad esprimere le proprie capacità stando seduti e scrivendo su un foglio, altri che stanno perennemente in piedi ed esprimono quello che sanno col proprio corpo. Come può una maestra creare una lezione o una verifica che sia utile per tutti questi tipi di bambini insieme? I “bambini speciali” sono come tutti gli altri in che senso? Nel senso che hanno lo stesso diritto di crescere sereni, di far emergere le proprie capacità, di riuscire a diventare indipendenti, ma non sono più sicura che questo metodo funzioni. Come possono ricevere l’attenzione di cui hanno bisogno in un’aula di 25 bambini dove la maestra non fa neanche in tempo a rivolgere la parola a tutti durante la lezione?

Il concetto di dolore è soggettivo e culturale, così come quello di educazione. Guardo Veronica e sorgono tante domande: lei mi ha rimesso al mio posto e ogni volta che ho una fitta allo stomaco penso che è solo una minuscola scossa elettrica confronto ai fulmini nel corpo che alcune persone devono sopportare.

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