La Casa Turismo Nizag in adobe |
Carmen ci accompagna alla Casa Turismo |
Ma poco importa e con le altre compagne di viaggio prendiamo subito accordi per restare un giorno in più del previsto per poter “scalare” l’agognato Chimborazo. L’Unione Europea stanzia una parte di budget del Servizio Volontario Europeo per quella che si chiama “valutazione di metà progetto”: il nome fa pensare a una riunione con tutti i volontari e i coordinatori in una stanza in cui si analizzano gli aspetti positivi e negativi della propria esperienza. La nostra associazione però, ha voluto sfruttare questi giorni per permetterci di visitare un progetto di turismo comunitario e conoscere finalmente il vero volto dell’Ecuador. Fino all’ultimo non sapevamo niente di questa destinazione dal nome misterioso che alle mie orecchie suonava vagamente esoterico: Nizag. Alla spedizione di uniscono Marian, partita anche lei con l’AFSAI, e la sua collega qui a Quito.
È venerdì, il settimo giorno del
mese di dicembre, i festeggiamenti per la fondazione di Quito sono appena
terminati con il mega concerto al Parque La Carolina e la mia laringite
batterica è appena guarita: possiamo partire per sei giorni fatti di un curioso
mix di relax e “fatica”.
Arrivate a Riobamba il caldo è pesante sui polmoni non
più abituati a queste temperature dato che a Quito le ultime settimane sono
state piuttosto fredde. Ci avvisano che a Nizag farà ancora più caldo così
resto estremamente sorpresa nell’osservare il paesaggio fuori dal finestrino
nel tratto di strada da Riobamba ad Alausí, la nostra prossima fermata: può far
pensare a una tundra russa o alle lande inglesi, in alcuni tratti mi viene
addirittura in mente il mio Abruzzo, la piana di Navelli con la sua pianura
chiusa in fondo dalle alte montagne ai due lati della strada. Non ci capisco
più niente, ogni volta che penso di aver capito qualcosa arriva una sorpresa. La
vista è quasi spettrale: la terra incolore a tratti intervallata da vivaci
chiazze autunnali di rosso o da una vegetazione occasionalmente più rigogliosa
è oppressa da una fittissima coltre di nebbia che taglia gli alberi di netto.
Dal livello della strada in su non si vede nulla, solo quintali di fiocchi di
cotone.
Da quando sono a Quito ho avuto uno strano rifiuto per il mio cd di
musica andina: quando ero a casa lo ascoltavo sempre prima di andare a dormire
sognando di essere proprio qua un giorno, ed ora perché non lo riesco ad
ascoltare nel contesto che sarebbe il più adatto? Qui, nel saliscendi tra i
monti che mi portano verso Alausí, mi rendo conto che è questo il mondo che
quella musica descrive, non la caotica capitale dalle periferie senza molta
personalità. Flauti di pan e charango scorrono nelle cuffie e una volta di più
mi rendo conto di quanto esattamente la musica folclorica descriva il volto e
l’anima di un luogo.
Facciamo tappa ad Alausí accompagnate da Carmen, una
ragazza della comunità, e suo figlio Frank che hanno il compito di farci arrivare
sane e salve. Il tragitto dalla piccola cittadina a Nizag è di nuovo pieno di
sensazioni forti: l’aria pulita, le montagne e le strade a picco sui burroni,
la camionetta su cui viaggiamo piena già dei suoni affascinanti del Kichwa, la
lingua locale, tutto mi dice che non me ne vorrò più andare. La strada
asfaltata finisce con un grandissimo cartello bianco che porta una scritta
troppo piccola e squadrata: “Bienvenidos a Nizag”. Da qui in poi la camionetta
inizia una ripida discesa e affronta tante curve per poter discendere la montagna.
In fondo alla valle ecco la comunità che ci accoglierà. Ma le sorprese non sono
finite: scrutando il paesaggio con la mia Canon mi accorgo di una casetta in
terra cruda. Accanto c’è un orticello e una signora in un abito rosso
sgargiante che si muove placida per lavorare la sua terra. Sembra un’istantanea
dell’Abruzzo degli anni ’20: sarà solo frutto della mia immaginazione? Mi
incanto a questa vista e non faccio in tempo a scattare, ne viene fuori
un’istantanea sfocata con un tetto che sbuca da sotto il livello della strada.
Chiedo però ai miei compagni di viaggio se nel pueblo ci sono casette di terra
e la risposta mi lascia di stucco: “Certo! Voi dormirete in una casa in adobe”.
Io sono esaltata ma Marian e Chiara non capiscono e mi chiedono sottovoce in
italiano cos’è una casa in adobe: una costruzione in terra cruda.
Sono nata in
un paesino che conta il maggior numero di case di terra in Italia:
Casalincontrada, probabilmente nessuno di voi l’avrà mai sentito nominare,
forse solo gli appassionati di bioedilizia. Per 27 anni ho girato per le
stradine affascinata dalla presenza di queste testimonianze di un mondo
contadino e povero che i più cercano di dimenticare mentre il gruppo che ha
fondato il CeDTerra (Centro di Documentazione sulle Case di Terra, http://www.casediterra.it/index_content.htm)
sta facendo rivivere con successo. Solo quest’anno però mi è venuta la
curiosità di partecipare al workshop che il CeDTerra organizza ogni settembre:
cinque giorni a contatto con il metodo di costruzione più naturale possibile,
acqua terra paglia e allegria impastati con le mani e con i piedi per dare una
mano a ristrutturare alcune pareti della Casa di Teresa. Tanti italiani, alcuni
stranieri, io: unica casalese. Partii così con la speranza di trovare qualcosa
di simile anche dall’altra parte del mondo: ecco che a Nizag l’idea che avevo
dell’analogia tra Abruzzo ed Ecuador non è più tanto assurda e non è tanto
nella presenza di queste case che sono diffuse un po’ in tutto il mondo, quanto
per un’atmosfera.
È ormai sera, sta per farsi notte. José, uno dei fondatori
del gruppo turismo, viene a darci il suo benvenuto: ora so che probabilmente
stava tornando da una lunga giornata di lavoro e forse non aveva ancora finito.
Noi siamo sfinite dalle quasi otto ore di viaggio che ci sono volute per
arrivare e dopo aver fotografato il tramonto che ci conquista tutte e
conosciuto Rosa Elena che ci offrirà pasti semplici e genuini per tutta la
settimana, crolliamo a letto addormentandoci finalmente con ragli di asini e il
grugnire dei maiali invece che allarmi di macchine e sobbalzare di camion. Non
prima però di fare una rigenerante doccia bollente: fin troppo gentile
preoccuparsi di fornire la casa di acqua calda, penso io, da parte di persone
che hanno pochissimo.
Paola A
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