"Dove finiscono le strade..." - parte I

15 dicembre 2012

La Casa Turismo Nizag in adobe
Ogni volta che dicevamo “vado al Chimborazo” la risposta era invariabilmente “Abrigate bien!”, ossia "vestiti pesante". E avevano ragione: l’equivoco nasce dal fatto che il Chimborazo è sia un vulcano che una provincia e noi non sapevamo ancora che non saremmo state per niente vicine al vulcano più alto dell’Ecuador, il punto della crosta terrestre più lontano dal nucleo del pianeta. Solo arrivate a Riobamba gli operatori che ci accolgono ci spiegano che saremo ospitate in una comunità nel sud della provincia che si trova a “soli” 2500 metri di altitudine. All’inizio siamo un po’ frastornate dalla notizia: la sera prima l’indecisione era su quante felpe portare e come ammassarle tra calze termiche e guanti di lana d’alpaca; la mattina scopriamo che abbiamo un sacco di peso inutile nello zaino e troppe poche magliette.

Carmen ci accompagna alla Casa Turismo

Ma poco importa e con le altre compagne di viaggio prendiamo subito accordi per restare un giorno in più del previsto per poter “scalare” l’agognato Chimborazo. L’Unione Europea stanzia una parte di budget del Servizio Volontario Europeo per quella che si chiama “valutazione di metà progetto”: il nome fa pensare a una riunione con tutti i volontari e i coordinatori in una stanza in cui si analizzano gli aspetti positivi e negativi della propria esperienza. La nostra associazione però, ha voluto sfruttare questi giorni per permetterci di visitare un progetto di turismo comunitario e conoscere finalmente il vero volto dell’Ecuador. Fino all’ultimo non sapevamo niente di questa destinazione dal nome misterioso che alle mie orecchie suonava vagamente esoterico: Nizag. Alla spedizione di uniscono Marian, partita anche lei con l’AFSAI, e la sua collega qui a Quito.

È venerdì, il settimo giorno del mese di dicembre, i festeggiamenti per la fondazione di Quito sono appena terminati con il mega concerto al Parque La Carolina e la mia laringite batterica è appena guarita: possiamo partire per sei giorni fatti di un curioso mix di relax e “fatica”.

Arrivate a Riobamba il caldo è pesante sui polmoni non più abituati a queste temperature dato che a Quito le ultime settimane sono state piuttosto fredde. Ci avvisano che a Nizag farà ancora più caldo così resto estremamente sorpresa nell’osservare il paesaggio fuori dal finestrino nel tratto di strada da Riobamba ad Alausí, la nostra prossima fermata: può far pensare a una tundra russa o alle lande inglesi, in alcuni tratti mi viene addirittura in mente il mio Abruzzo, la piana di Navelli con la sua pianura chiusa in fondo dalle alte montagne ai due lati della strada. Non ci capisco più niente, ogni volta che penso di aver capito qualcosa arriva una sorpresa. La vista è quasi spettrale: la terra incolore a tratti intervallata da vivaci chiazze autunnali di rosso o da una vegetazione occasionalmente più rigogliosa è oppressa da una fittissima coltre di nebbia che taglia gli alberi di netto. Dal livello della strada in su non si vede nulla, solo quintali di fiocchi di cotone.
Da quando sono a Quito ho avuto uno strano rifiuto per il mio cd di musica andina: quando ero a casa lo ascoltavo sempre prima di andare a dormire sognando di essere proprio qua un giorno, ed ora perché non lo riesco ad ascoltare nel contesto che sarebbe il più adatto? Qui, nel saliscendi tra i monti che mi portano verso Alausí, mi rendo conto che è questo il mondo che quella musica descrive, non la caotica capitale dalle periferie senza molta personalità. Flauti di pan e charango scorrono nelle cuffie e una volta di più mi rendo conto di quanto esattamente la musica folclorica descriva il volto e l’anima di un luogo.
Facciamo tappa ad Alausí accompagnate da Carmen, una ragazza della comunità, e suo figlio Frank che hanno il compito di farci arrivare sane e salve. Il tragitto dalla piccola cittadina a Nizag è di nuovo pieno di sensazioni forti: l’aria pulita, le montagne e le strade a picco sui burroni, la camionetta su cui viaggiamo piena già dei suoni affascinanti del Kichwa, la lingua locale, tutto mi dice che non me ne vorrò più andare. La strada asfaltata finisce con un grandissimo cartello bianco che porta una scritta troppo piccola e squadrata: “Bienvenidos a Nizag”. Da qui in poi la camionetta inizia una ripida discesa e affronta tante curve per poter discendere la montagna. In fondo alla valle ecco la comunità che ci accoglierà. Ma le sorprese non sono finite: scrutando il paesaggio con la mia Canon mi accorgo di una casetta in terra cruda. Accanto c’è un orticello e una signora in un abito rosso sgargiante che si muove placida per lavorare la sua terra. Sembra un’istantanea dell’Abruzzo degli anni ’20: sarà solo frutto della mia immaginazione? Mi incanto a questa vista e non faccio in tempo a scattare, ne viene fuori un’istantanea sfocata con un tetto che sbuca da sotto il livello della strada. Chiedo però ai miei compagni di viaggio se nel pueblo ci sono casette di terra e la risposta mi lascia di stucco: “Certo! Voi dormirete in una casa in adobe”. Io sono esaltata ma Marian e Chiara non capiscono e mi chiedono sottovoce in italiano cos’è una casa in adobe: una costruzione in terra cruda.
Sono nata in un paesino che conta il maggior numero di case di terra in Italia: Casalincontrada, probabilmente nessuno di voi l’avrà mai sentito nominare, forse solo gli appassionati di bioedilizia. Per 27 anni ho girato per le stradine affascinata dalla presenza di queste testimonianze di un mondo contadino e povero che i più cercano di dimenticare mentre il gruppo che ha fondato il CeDTerra (Centro di Documentazione sulle Case di Terra, http://www.casediterra.it/index_content.htm) sta facendo rivivere con successo. Solo quest’anno però mi è venuta la curiosità di partecipare al workshop che il CeDTerra organizza ogni settembre: cinque giorni a contatto con il metodo di costruzione più naturale possibile, acqua terra paglia e allegria impastati con le mani e con i piedi per dare una mano a ristrutturare alcune pareti della Casa di Teresa. Tanti italiani, alcuni stranieri, io: unica casalese. Partii così con la speranza di trovare qualcosa di simile anche dall’altra parte del mondo: ecco che a Nizag l’idea che avevo dell’analogia tra Abruzzo ed Ecuador non è più tanto assurda e non è tanto nella presenza di queste case che sono diffuse un po’ in tutto il mondo, quanto per un’atmosfera.
È ormai sera, sta per farsi notte. José, uno dei fondatori del gruppo turismo, viene a darci il suo benvenuto: ora so che probabilmente stava tornando da una lunga giornata di lavoro e forse non aveva ancora finito. Noi siamo sfinite dalle quasi otto ore di viaggio che ci sono volute per arrivare e dopo aver fotografato il tramonto che ci conquista tutte e conosciuto Rosa Elena che ci offrirà pasti semplici e genuini per tutta la settimana, crolliamo a letto addormentandoci finalmente con ragli di asini e il grugnire dei maiali invece che allarmi di macchine e sobbalzare di camion. Non prima però di fare una rigenerante doccia bollente: fin troppo gentile preoccuparsi di fornire la casa di acqua calda, penso io, da parte di persone che hanno pochissimo.
Paola A


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