Turismo comunitario: una forma di turismo in cui le attività
sono gestite dai membri della comunità ed i proventi rimangono all’interno
della stessa. Lo studi sui libri e lo discuti in sede di laurea, fantastichi e argomenti
con amici che condividono il tuo stesso “credo”, ma alla fine non sei tanto
convinta che funzioni. Che cos’è davvero il turismo comunitario? Finalmente ho
l’opportunità di scoprirlo al di là delle definizioni.
Il primo giorno comincia già con un fuori programma: ci
avevano detto che ci sarebbe stata una minga, ossia un lavoro comunitario, e
che ci sarebbe venuto a prendere un ragazzo del gruppo turismo. Arriva invece
un altro ragazzo, Luís, accompagnato dalla sua giovane esposa e dal figlioletto
per portarci a visitare la comunità. In breve, un passo dopo l’altro e senza
neanche accorgercene, ci ritroviamo sulla via per la famigerata Nariz del
Diablo. La costruzione del treno che collega le Ande alla costa, nel 1902, fu
infatti talmente difficoltosa che si scelse questo nome sinistro per descrivere
la montagna. Ogni volta che si apriva una via con la dinamite il giorno dopo la
si ritrovava chiusa da una valanga e molte persone persero la vita per la
costruzione della ferrovia. Dopo un’oretta non ho più voglia di camminare, chiedo
allora alla guida di continuare, mentre mi siedo ad ascoltare il silenzio
assoluto e a guardare gli animali che pascolano centinaia di metri più in giù.
Il paesaggio è brullo e desolato, Luís ci dice che in aprile qui è tutto verde, ora invece il colore che predomina è il marroncino, il color café come lo chiamano qui. Mi lascio trascinare dalla tranquillità e dall’ozio. Il sole scende a picco e la crema solare protezione 50 può fare ben poco, ben presto mi ritrovo con faccia e braccia arrossate. Mi guardo attorno e non c’è nessuno, solo qualche donna con i suoi animali a distanze che non fanno loro sospettare la mia presenza. Finalmente il silenzio assoluto, incrocio le gambe e mi siedo, l’unica cosa che penso è che non sono un animale da città, poi più niente.
Io e i miei scarponi... ops! Io e gli scarponi gentilmente prestati da mia sorella, alla Nariz del Diablo |
Il paesaggio è brullo e desolato, Luís ci dice che in aprile qui è tutto verde, ora invece il colore che predomina è il marroncino, il color café come lo chiamano qui. Mi lascio trascinare dalla tranquillità e dall’ozio. Il sole scende a picco e la crema solare protezione 50 può fare ben poco, ben presto mi ritrovo con faccia e braccia arrossate. Mi guardo attorno e non c’è nessuno, solo qualche donna con i suoi animali a distanze che non fanno loro sospettare la mia presenza. Finalmente il silenzio assoluto, incrocio le gambe e mi siedo, l’unica cosa che penso è che non sono un animale da città, poi più niente.
Tornate
in comunità siamo talmente esauste che facciamo un ricco pranzo e una bella
doccia prima di sprofondare nei morbidi letti poi definiamo i dettagli del
viaggio del giorno dopo ad Ingapirca: approfitteremo della vicinanza a Nizag,
soltanto due ore lungo la Panamericana in direzione Sud. Invitiamo anche Rosa
Elena e lei risponde col suo solito grande sorriso. Rosa Elena accetta tutto
ciò che le si possa offrire ma non dice mai di sì, dice solo “gracias” ed è
dall’inflessione della sua voce e dall’inclinazione della testa che dobbiamo
capire se è un sì o un no. Quando le diciamo che il cibo che cucina è
buonissimo, invece, non ringrazia ma dice: “Ojalá, por favor”, cioè “speriamo,
per favore”. È l’umiltà fatta persona. Luís ci spiega che dobbiamo percorrere
mezz’ora a piedi per raggiungere la strada ed io mi spavento subito: la strada
per cui siamo venuti è una paurosa salita! Ma c’è il trucco: c’è un’altra via,
in pianura per fortuna, che sbuca direttamente sulla Panamericana. È fatta. La
mattina seguente, in ritardo e con Rosa Elena e uno dei suoi cinque figli al
seguito, ci imbarchiamo su un bus dove cercano di farci pagare 4 dollari invece
dei 2.50 previsti dalla corsa. Incredibile: cercano di truffare noi quattro dai
visi di gringas ma anche Rosa Elena, un’indigena umile sì, ma non una che ama
farsi imbrogliare. Comincia a discutere con l’autista e insiste che il biglietto
costa 2.50, ma quando quello non cede lei decide di scendere alla prima
fermata. Rimango stupita ed ammirata dalla sua determinazione ad imporre la
giustizia. L’autista però non la lascia scendere dicendo che quello era un
posto pericoloso e accetta alla fine di farci pagare il giusto prezzo. Questa è
una cosa che succede sempre: nonostante il prezzo di una tratta di bus sia fissa
loro ci provano comunque, anche sui bus di linea, anche a Quitumbe, un enorme e
modernissimo terminal nel sud della città, hanno addirittura cercato di
spillarci 5 miseri centesimi in più a testa. Ecco perché gli ecuadoriani, e
così facciamo noi, hanno sempre le monete contate. La tecnica che ho affinato
alla fine di queste esperienze è quella di chiedere il prezzo e poi dare sempre
10 centesimi in meno: nessuno si è mai lamentato finora.
Ingapirca sotto un cielo inglese |
Paola A.
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